Narrazioni | Riflessioni

Non chiamatelo caffè.

giovedì 11 giugno 2020

“Un mese” fu la risposta.
“Per quanto tempo non posso bere caffè?” era stata la domanda.
Un mese sono 30 giorni, 30 colazioni e 30 fine pasto senza quel rito che dava l’avvio alla giornata o concludeva la tappa del pranzo. La mia mente, molto poco matematica, totalizzò senza fatica 60 momenti di puro piacere annullati in 2 parole. Il mio cuore non poté quantificare le chiacchiere, la cura, la condivisione, il profumo, o anche solo il perdersi guardando fuori dalla finestra per il tempo necessario a bere quei pochi sorsi aromatici, italianissimi ed esotici allo stesso tempo.
“Ha provato il caffè di cicoria? E’ buonissimo!”  Così, con disagio, portai a casa questo pacchettino che esaltava profumi e sapori di caramello. A me il caramello piacerebbe anche, ma non nella tazzina. Ne provo uno. Ammetto che da quei sassolini marroni che, chissà come, derivano da una pianta verde e amara, ne esce una bevanda buona, piacevole, dall’effettivo retrogusto caramellato. Ma non chiamatelo caffè. A parte il gusto cambia anche tutta l’atmosfera: non ci si aspetta la mattina per berlo insieme (mi guardano con pietosa comprensione) e mi è difficile perdermi con lo sguardo e coi pensieri bevendo questa cosa buona ma senza grinta; non riesco a dire a un’amica “vuoi una tazza di cicoria?” perderei la sua fiducia; non fa nemmeno quel simpatico borbottio nella moka che, come una nonna affettuosa, mi chiama per coccolarmi… Vabbé, è buono e mi ci abituerò. Ma cambiamo il nome, perché chiamarlo caffè è ingannevole. Crea aspettative e poi delude, mentre invece se ha un suo nome prende dignità e carattere nel rispetto delle sue molte proprietà naturali molto importanti. Come dire “ragù di tofu” . Io l’ho mangiato e può essere un sugo davvero buonissimo ma non è ragù!! Non ci sono i gesti sapienti della cuoca che lo sorveglia mentre prepara la sfoglia cantando “bella ciao” o “‘o sole mio”. Il ragù è uno, il sugo vegano è un altro, lascio agli esperti di linguistica la ricerca per un nome che renda merito al sano tofu e non rubi i sogni di chi sta per gustarsi le tagliatelle sperando nel ragù!
E i nostri gesti nuovi in questo periodo che non si sa se è una parentesi o un punto a capo? Personalmente aborro l’idea di sostituire un abbraccio con una gomitata. Non è toccarsi con un punto lontano che può trasmettere tutta la carica emotiva di un abbraccio vero. Io col gomito non sento che il mio voler bene si dona e si arricchisce del tuo volermi bene. Non c’è nulla che mi conforta, mi contiene, che esprime affettuosa gioia o può ricevere conforto come un vero abbraccio, unico gesto direi d’amore che è lecito con tutti senza creare tradimenti. Non vedo più i sorrisi, espressioni più delicate del nostro pensiero. Possono sfuggire rivelando emozioni o possono ingannare nascondendo paure se non perfidie. Ma, se spesi bene, sono così belli! Abbiamo perso anche le strette di mano calorose e vigorose come piacciono a me, però evitiamo mani assenti, fredde e sudate così difficili da gestire con empatia.
Ma sono positiva. Voglio gustarmi quello che ho adesso: sguardi e parole. Gli occhi, uniche sentinelle sui bastioni delle mascherine, osservano ed esprimono tutto quello che il resto del viso e del corpo deve contenere e limitare. Se non si appannano gli occhiali sono i baluardi più o meno volontari dei nostri sentimenti. Sono la porta che lascia entrare ed uscire ciò che il cuore ha da dire o desidera ricevere. Sono le avanguardie che, attente, raccolgono dati per imparare a gestire questo cambio di rotta nella nebbia, questa battaglia contro un nemico piccolo e abitudini ingombranti. E le parole. Seppur ovattate possono essere taglienti. Seppur schermate possono colpire il bersaglio con precisione millimetrica. Seppur limitate possono, direi devono, poter esprimere tutto il bello che abbiamo da donare e possono tacere per saperlo ricevere serenamente. Ne potrei scoprire di nuove, di poco usate, di antiche…l’importante è che siano efficaci, pensate e scelte come si fa coi regali alle persone care. Parole piene di senso, parole musicali, donate e ricevute con attenzione. La parola,come l’abbraccio, ha bisogno di un prossimo per essere accolta, condivisa e ascoltata altrimenti cade muta e sorda, persa e inutile.
Occhi e parole, sguardi e voci saranno le nostre nuove sane alternative a qualcosa di bellissimo che prima o poi recupereremo e, magari, con rinnovata, consapevole e soprattutto emozionata gratitudine! 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *